Quasi tutte le analisi svolte fino a oggi in merito alle vicende procedurali, tecniche, sociali e politiche del piano regolatore di Milano del dopoguerra concordano nel considerare il PRG del 1948 (il cosiddetto Piano Venanzi) un discreto piano, che cercò per prima cosa di segnare una discontinuità netta e profonda con la tradizione urbanistica milanese. Si concorda poi nell’asserire che nel corso del lungo iter di approvazione cui fu sottoposto, il piano Venanzi fu deliberatamente manomesso, mentre altre azioni politiche locali rendevano possibile l’avvio e il compimento proprio di quel tipo di ricostruzione che fino ad allora si era cercato di prevenire e di evitare, fino ad approvare, nel 1953, un PRG sostanzialmente privato dei suoi elementi fondanti. Si dimostra che gran parte delle ragioni e delle traiettorie della mancata tutela milanese ha radici e trovò un primo banco di prova (da cui uscì perdente ogni prospettiva di una fattiva ed efficace salvaguardia dell’esistente) proprio negli avvenimenti e nelle discussioni sul piano che si svolsero fra il 1945 e la primavera del 1948. Quelle radici, si ha ragione di credere, erano già presenti in nuce nel piano del 1948 e nelle sue premesse (l’istituzione delle concessioni “in precario”, lo “sblocco” di dieci milioni di metri quadrati di aree edificate per attività edilizie prima dell’adozione del piano) e in una serie di decisioni che in quell’occasione vennero o non vennero prese, e si ritrovano pressoché inalterate e intoccate, talora amplificate, nel piano del 1953: l’impatto sulla città esistente degli elementi fondanti del nuovo piano (il nuovo centro direzionale, gli assi attrezzati di attraversamento della città, una nuova maglia viaria), la propensione verso il rinnovamento urbano, la gestione velleitaria e irrisolta del Piano di ricostruzione e del Regolamento edilizio. Il saggio approfondisce queste vicende e gli esiti a cui hanno dato luogo.
La ripresa dell'attività edilizia, il "piano Venanzi", il piano di ricostruzione e la mancata tutela di Milano
PERTOT, GIANFRANCO
2016-01-01
Abstract
Quasi tutte le analisi svolte fino a oggi in merito alle vicende procedurali, tecniche, sociali e politiche del piano regolatore di Milano del dopoguerra concordano nel considerare il PRG del 1948 (il cosiddetto Piano Venanzi) un discreto piano, che cercò per prima cosa di segnare una discontinuità netta e profonda con la tradizione urbanistica milanese. Si concorda poi nell’asserire che nel corso del lungo iter di approvazione cui fu sottoposto, il piano Venanzi fu deliberatamente manomesso, mentre altre azioni politiche locali rendevano possibile l’avvio e il compimento proprio di quel tipo di ricostruzione che fino ad allora si era cercato di prevenire e di evitare, fino ad approvare, nel 1953, un PRG sostanzialmente privato dei suoi elementi fondanti. Si dimostra che gran parte delle ragioni e delle traiettorie della mancata tutela milanese ha radici e trovò un primo banco di prova (da cui uscì perdente ogni prospettiva di una fattiva ed efficace salvaguardia dell’esistente) proprio negli avvenimenti e nelle discussioni sul piano che si svolsero fra il 1945 e la primavera del 1948. Quelle radici, si ha ragione di credere, erano già presenti in nuce nel piano del 1948 e nelle sue premesse (l’istituzione delle concessioni “in precario”, lo “sblocco” di dieci milioni di metri quadrati di aree edificate per attività edilizie prima dell’adozione del piano) e in una serie di decisioni che in quell’occasione vennero o non vennero prese, e si ritrovano pressoché inalterate e intoccate, talora amplificate, nel piano del 1953: l’impatto sulla città esistente degli elementi fondanti del nuovo piano (il nuovo centro direzionale, gli assi attrezzati di attraversamento della città, una nuova maglia viaria), la propensione verso il rinnovamento urbano, la gestione velleitaria e irrisolta del Piano di ricostruzione e del Regolamento edilizio. Il saggio approfondisce queste vicende e gli esiti a cui hanno dato luogo.File | Dimensione | Formato | |
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