Il contributo affronta il tema della ricostruzione edilizia dal punto di vista dell’organizzazione degli spazi interni e delle attrezzature domestiche, spingendosi anche con alcuni spunti e considerazioni critiche fino agli anni della nostra contemporaneità. Nell’immediato secondo dopoguerra il dibattito sulla “casa per tutti” ha impegnato l’agenda politica e la cultura architettonica italiana, sollecitata a produrre tipologie e metodi costruttivi in grado di far fronte alle mutate condizioni sociali e alle urgenze della domanda abitativa che reclamava ben 15 milioni di vani. In questo panorama le ricerche progettuali non si concentrarono solamente sull’involucro edilizio, ma anche sui suoi contenuti interni, come testimoniato dalla grande pluralità di studi e proposte messe in campo. Il contributo a partire dalla mostra del Rima-Riunione italiana mostre arredamento allestita nel 1946 al Palazzo dell’Arte e dalla cosiddetta “Triennale proletaria” del 1947 (costruzione del quartiere QT8 e relative mostre dedicate allo standard e all’unificazione applicate all’arredo) si concentra, in particolare, sul Piano Ina-Casa (1949/1963). Sono individuati come interventi esemplari i quartieri romani Valco di San Paolo, Tiburtino e Tuscolano, e i quartieri milanesi Harar-Dessiè, Mangiagalli, Vialba e Cesate. Progetti che subirono l’influenza dell’Unité d’habitation di Le Corbuiser (e dei quartieri anglosassoni e scandinavi) per quanto riguardava soprattutto l’organizzazione degli spazi interni e degli spazi comuni di relzione e distribuzione degli alloggi, reinterpretandoli però a partire dai modelli tipologici tradizionali, dallo schema distributivo a ballatoio al tipo della casa a corte. L’uso del ballatoio, in particolare, era un elemento ricorrente e assumeva diversi significati: evocava le tipiche e popolari case a ringhiera e quindi rappresentava un elemento di continuità della tradizione storica locale; costituiva un cruciale espediente sul piano distributivo e funzionale che consentiva economie di costi e un ricco campionario di soluzioni figurative e spaziali. Il contributo mette in luce come negli anni Cinquanta-Sessanta la definizione dei tipi edilizi scaturisse da un accurato studio degli alloggi e delle loro diverse possibili combinazioni (secondo una progressione di scala di matrice razionalista) e poi dall’articolazione nello spazio degli edifici (riconducibili a tipologie codificate, quali la casa a schiera, la casa in linea, la casa a torre ecc.) discendeva la composizione urbanistica del quartiere. Negli anni Settanta, invece, questa sequenza si ribaltava: il punto di partenza era la morfologia dei luoghi (reale o reinterpretata) mentre la continuità dei percorsi era lo strumento fondante della composizione generale cui aggregare tutti gli elementi edilizi (anche standardizzati e ripetuti). Questi furono gli anni della cosidetta “grande dimensione” e l’alloggio era inserito in un palinsesto architettonico le cui ragioni si ritrovavano alla scala territoriale. Sul finire del secolo, un numero consistente di progettisti ha rivalutato le potenzialità dei modelli abitativi ad alta densità, anche a fronte dell’inevitabile consumo di territorio derivato dallo sprawl urbano a bassa densità. Il contributo getta poi uno sguardo sulla nostra più stretta contemporaneità: veicolata anche da Ikea, si impone progressivamente il concetto di casa “fai-da-te” a basso costo, scelta e strutturata a catalogo, con una soluzione che paradossalmente sembra ridar fiato alla tradizione ottocentesca americana dell’home delivery. In questo contesto il tema progettuale si sposta dall’hardware dell’architettura al software, cioè al sistema delle attrezzature che la rendono confortevole e abitabile, ossia al mondo dell’arredo, di cui la stessa Ikea rappresenta una una sorta di democratizzazione alla portata di tutti.

La casa sociale

CIAGA', GRAZIELLA LEYLA
2015-01-01

Abstract

Il contributo affronta il tema della ricostruzione edilizia dal punto di vista dell’organizzazione degli spazi interni e delle attrezzature domestiche, spingendosi anche con alcuni spunti e considerazioni critiche fino agli anni della nostra contemporaneità. Nell’immediato secondo dopoguerra il dibattito sulla “casa per tutti” ha impegnato l’agenda politica e la cultura architettonica italiana, sollecitata a produrre tipologie e metodi costruttivi in grado di far fronte alle mutate condizioni sociali e alle urgenze della domanda abitativa che reclamava ben 15 milioni di vani. In questo panorama le ricerche progettuali non si concentrarono solamente sull’involucro edilizio, ma anche sui suoi contenuti interni, come testimoniato dalla grande pluralità di studi e proposte messe in campo. Il contributo a partire dalla mostra del Rima-Riunione italiana mostre arredamento allestita nel 1946 al Palazzo dell’Arte e dalla cosiddetta “Triennale proletaria” del 1947 (costruzione del quartiere QT8 e relative mostre dedicate allo standard e all’unificazione applicate all’arredo) si concentra, in particolare, sul Piano Ina-Casa (1949/1963). Sono individuati come interventi esemplari i quartieri romani Valco di San Paolo, Tiburtino e Tuscolano, e i quartieri milanesi Harar-Dessiè, Mangiagalli, Vialba e Cesate. Progetti che subirono l’influenza dell’Unité d’habitation di Le Corbuiser (e dei quartieri anglosassoni e scandinavi) per quanto riguardava soprattutto l’organizzazione degli spazi interni e degli spazi comuni di relzione e distribuzione degli alloggi, reinterpretandoli però a partire dai modelli tipologici tradizionali, dallo schema distributivo a ballatoio al tipo della casa a corte. L’uso del ballatoio, in particolare, era un elemento ricorrente e assumeva diversi significati: evocava le tipiche e popolari case a ringhiera e quindi rappresentava un elemento di continuità della tradizione storica locale; costituiva un cruciale espediente sul piano distributivo e funzionale che consentiva economie di costi e un ricco campionario di soluzioni figurative e spaziali. Il contributo mette in luce come negli anni Cinquanta-Sessanta la definizione dei tipi edilizi scaturisse da un accurato studio degli alloggi e delle loro diverse possibili combinazioni (secondo una progressione di scala di matrice razionalista) e poi dall’articolazione nello spazio degli edifici (riconducibili a tipologie codificate, quali la casa a schiera, la casa in linea, la casa a torre ecc.) discendeva la composizione urbanistica del quartiere. Negli anni Settanta, invece, questa sequenza si ribaltava: il punto di partenza era la morfologia dei luoghi (reale o reinterpretata) mentre la continuità dei percorsi era lo strumento fondante della composizione generale cui aggregare tutti gli elementi edilizi (anche standardizzati e ripetuti). Questi furono gli anni della cosidetta “grande dimensione” e l’alloggio era inserito in un palinsesto architettonico le cui ragioni si ritrovavano alla scala territoriale. Sul finire del secolo, un numero consistente di progettisti ha rivalutato le potenzialità dei modelli abitativi ad alta densità, anche a fronte dell’inevitabile consumo di territorio derivato dallo sprawl urbano a bassa densità. Il contributo getta poi uno sguardo sulla nostra più stretta contemporaneità: veicolata anche da Ikea, si impone progressivamente il concetto di casa “fai-da-te” a basso costo, scelta e strutturata a catalogo, con una soluzione che paradossalmente sembra ridar fiato alla tradizione ottocentesca americana dell’home delivery. In questo contesto il tema progettuale si sposta dall’hardware dell’architettura al software, cioè al sistema delle attrezzature che la rendono confortevole e abitabile, ossia al mondo dell’arredo, di cui la stessa Ikea rappresenta una una sorta di democratizzazione alla portata di tutti.
2015
Storie d'interni. L'architettura dello spazio domestico moderno
9788843078257
quartieri popolari
casa sociale
secondo dopoguerra
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11311/969828
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