Apparentemente non si dà architettura senza contesto, ma molta parte dell'architettura contemporanea risulta atopica, in quanto trascura deliberatamente le relazioni con il contesto, vivendo della sua solitaria autoreferenzialità, sospesa in una sorta di rappresentazione renderizzata di se stessa, e perseguendo univocamente quella che Françoise Choay, sulla scorta degli studi compiuti da Kevin Linch, aveva chiamato “imageability”: una sorta di pregnanza iconica e pubblicitaria che è diventata un elemento distintivo di molti edifici pubblici degli ultimi vent'anni, che si segnalano come eventi eccezionali, sottraendosi dall’omogeneità del tessuto urbano e ponendosi come landmark nel territorio, ma in vario modo indifferenti ad esso. Si tratta di architetture trasformate in dispositivi ipertestuali di spettacolarità mediatica, icone della contemporaneità e strumenti di marketing urbano il cui progetto è affidato ad archistar, alle quali è richiesto di prestare il loro nome come fosse un brand, un logo con cui firmare un edificio o un pezzo di città, confezionare (come fosse un vestito di alta moda) una mise-en-scène finalizzata soltanto a stupire e richiamare il grande pubblico. Dal punto di vista della rappresentazione, emerge in questo tipo di progetti una particolare attenzione alla concettualizzazione mediante schematizzazioni tese a comunicarne in modo sintetico e graficamente accattivante gli aspetti peculiari, con una sorta di corrispondenza tra la sintesi della forma progettata e quella della sua rappresentazione. Nella rappresentazione di queste architetture il disegno, spesso, non ha tanto la finalità di illustrare un progetto e controllarne la complessità, quanto quella di rappresentare una teoria progettuale e una visione estetica del mondo, affiancando o sostituendo la parola scritta per affermare in modo forte e inequivocabile l'individualità del progettista, reiterandone la cifra stilistica (anche grafica), e rafforzandone in tal modo l'identità e la consacrazione pubblica. Essendo l'architettura medium di se stessa, la modalità di rappresentazione di queste architetture atopiche è solitamente il rendering, che produce immagini iperrealistiche finalizzate a sedurre lo spettatore nella loro patinata verosimiglianza. Ma si diffondono così, per causa dei tanti epigoni delle poche "archistar", innumerevoli immagini imbellettate di architetture che citano l'ultima texture alla moda, e che svuotano di significato la rappresentazione stessa dell'architettura portando a una sostanziale omologazione. Ma dall'atopia architettonica al catalogo di icone prêt-à-porter il passo è breve. All'uniformità della rappresentazione renderizzata corrisponde molte volte infatti anche quella delle soluzioni architettoniche e formali, che finiscono per impoverire la ricerca progettuale: pure immagini che si diffondono in modo quasi virale nell'immaginario collettivo della rete. Di fronte all'abuso del fotorealismo, ci si chiede come attivare forme di rappresentazione che lascino spazio all'immaginazione dell'osservatore, recuperando in modo nuovo, forse, anche gli strumenti di rappresentazione più tradizionali integrati e coadiuvati dalle tecnologie digitali.

Atopia, rappresentazione e imageability

MUSCOGIURI, MARCO
2013-01-01

Abstract

Apparentemente non si dà architettura senza contesto, ma molta parte dell'architettura contemporanea risulta atopica, in quanto trascura deliberatamente le relazioni con il contesto, vivendo della sua solitaria autoreferenzialità, sospesa in una sorta di rappresentazione renderizzata di se stessa, e perseguendo univocamente quella che Françoise Choay, sulla scorta degli studi compiuti da Kevin Linch, aveva chiamato “imageability”: una sorta di pregnanza iconica e pubblicitaria che è diventata un elemento distintivo di molti edifici pubblici degli ultimi vent'anni, che si segnalano come eventi eccezionali, sottraendosi dall’omogeneità del tessuto urbano e ponendosi come landmark nel territorio, ma in vario modo indifferenti ad esso. Si tratta di architetture trasformate in dispositivi ipertestuali di spettacolarità mediatica, icone della contemporaneità e strumenti di marketing urbano il cui progetto è affidato ad archistar, alle quali è richiesto di prestare il loro nome come fosse un brand, un logo con cui firmare un edificio o un pezzo di città, confezionare (come fosse un vestito di alta moda) una mise-en-scène finalizzata soltanto a stupire e richiamare il grande pubblico. Dal punto di vista della rappresentazione, emerge in questo tipo di progetti una particolare attenzione alla concettualizzazione mediante schematizzazioni tese a comunicarne in modo sintetico e graficamente accattivante gli aspetti peculiari, con una sorta di corrispondenza tra la sintesi della forma progettata e quella della sua rappresentazione. Nella rappresentazione di queste architetture il disegno, spesso, non ha tanto la finalità di illustrare un progetto e controllarne la complessità, quanto quella di rappresentare una teoria progettuale e una visione estetica del mondo, affiancando o sostituendo la parola scritta per affermare in modo forte e inequivocabile l'individualità del progettista, reiterandone la cifra stilistica (anche grafica), e rafforzandone in tal modo l'identità e la consacrazione pubblica. Essendo l'architettura medium di se stessa, la modalità di rappresentazione di queste architetture atopiche è solitamente il rendering, che produce immagini iperrealistiche finalizzate a sedurre lo spettatore nella loro patinata verosimiglianza. Ma si diffondono così, per causa dei tanti epigoni delle poche "archistar", innumerevoli immagini imbellettate di architetture che citano l'ultima texture alla moda, e che svuotano di significato la rappresentazione stessa dell'architettura portando a una sostanziale omologazione. Ma dall'atopia architettonica al catalogo di icone prêt-à-porter il passo è breve. All'uniformità della rappresentazione renderizzata corrisponde molte volte infatti anche quella delle soluzioni architettoniche e formali, che finiscono per impoverire la ricerca progettuale: pure immagini che si diffondono in modo quasi virale nell'immaginario collettivo della rete. Di fronte all'abuso del fotorealismo, ci si chiede come attivare forme di rappresentazione che lascino spazio all'immaginazione dell'osservatore, recuperando in modo nuovo, forse, anche gli strumenti di rappresentazione più tradizionali integrati e coadiuvati dalle tecnologie digitali.
2013
Atopie
9780201379624
disegno; Progetto; rappresentazione; atopia
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11311/842131
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