Alla Marina di Capri, una notte di settembre del 1924, Ernst Bloch e Walter Benjamin hanno discusso a lungo - “fino al ritorno delle barche da pesca dal mare nell’aurora”, scrive Bloch - sulla fiaba di Ludwig Tieck, “Der blonde Eckbert” (1797), capolavoro del primo Romanticismo. Se è possibile definire il mito come “ontologia” primaria, si può certamente fare altrettanto per la fiaba, "selvatica" ontologia che espone la sostanza del mito stesso e ne ricava un semplice breviario di morale, prontamente utilizzabile in caso di necessità. Quel che c’è da sapere riguardo al mito, la fiaba lo dice in poche parole comprensibili a tutti: forse perché, come ha affermato Lukács, “la fiaba tende in direzione del magico, e la sostanza della magia ha qualcosa che è più antico di tutte le metafisiche e di tutte le religioni, qualcosa che penetra più profondamente, e quindi in maniera più autentica, verso le radici del mondo, di quanto non ne siano capaci la metafisica e la religione”. Questa “trascendenza assoluta” della fiaba è ciò che le conferisce una superiore saggezza e scaltrezza, di fronte a cui le potenze mitiche possono persino passare da ingenue. “Il primo e vero narratore è e rimane quello di fiabe. Dove il consiglio era più difficile, la favola sapeva indicarlo, e dove l’angustia era più grave, il suo aiuto era più vicino. Questa angustia era quella del mito. La favola c’informa delle prime disposizioni prese dall’umanità per scuotere l’incubo che il mito le faceva gravare sul petto”, così Walter Benjamin in “Angelus Novus”. Queste tesi di Benjamin trovano concorde Ernst Bloch: nelle fiabe “vive un tratto anti-mitico, ovvero la volontà di prendere all’amo il mondo incantato”, e lo stile fiabesco ha proprio il compito di spezzare ogni volta il sortilegio. L’ontologia della fiaba è la più elementare: aderisce fedelmente alla finitezza e fragilità del vivente, a cui per principio non può mentire, perché ne rispecchia la caparbia volontà di autoconservazione trasfigurata in sapienza universale. Si tratta semplicemente di ciò che minaccia la vita e dei mezzi per cavarsela. “La caparbia, ininterrotta lezione delle fiabe è la vittoria sulla legge di necessità e nient’altro, perché nient’altro c’è da imparare su questa terra”, perché il cammino della fiaba “s’inizia senza speranza terrena” e si conclude col superamento quasi soprannaturale del pericolo: “A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A colui che senza speranza si affida all’insperabile” (così Cristina Campo, “Gli imperdonabili”).

La fiaba come ontologia elementare. Ernst Bloch e “Il biondo Eckbert” di Ludwig Tieck, in: Figure dell'utopia. Saggi su Ernst Bloch, a cura di G. Cacciatore, intr. di F. Tessitore, F. Redi Editore, Avellino 1989

GIACOMINI, LORENZO
1989-01-01

Abstract

Alla Marina di Capri, una notte di settembre del 1924, Ernst Bloch e Walter Benjamin hanno discusso a lungo - “fino al ritorno delle barche da pesca dal mare nell’aurora”, scrive Bloch - sulla fiaba di Ludwig Tieck, “Der blonde Eckbert” (1797), capolavoro del primo Romanticismo. Se è possibile definire il mito come “ontologia” primaria, si può certamente fare altrettanto per la fiaba, "selvatica" ontologia che espone la sostanza del mito stesso e ne ricava un semplice breviario di morale, prontamente utilizzabile in caso di necessità. Quel che c’è da sapere riguardo al mito, la fiaba lo dice in poche parole comprensibili a tutti: forse perché, come ha affermato Lukács, “la fiaba tende in direzione del magico, e la sostanza della magia ha qualcosa che è più antico di tutte le metafisiche e di tutte le religioni, qualcosa che penetra più profondamente, e quindi in maniera più autentica, verso le radici del mondo, di quanto non ne siano capaci la metafisica e la religione”. Questa “trascendenza assoluta” della fiaba è ciò che le conferisce una superiore saggezza e scaltrezza, di fronte a cui le potenze mitiche possono persino passare da ingenue. “Il primo e vero narratore è e rimane quello di fiabe. Dove il consiglio era più difficile, la favola sapeva indicarlo, e dove l’angustia era più grave, il suo aiuto era più vicino. Questa angustia era quella del mito. La favola c’informa delle prime disposizioni prese dall’umanità per scuotere l’incubo che il mito le faceva gravare sul petto”, così Walter Benjamin in “Angelus Novus”. Queste tesi di Benjamin trovano concorde Ernst Bloch: nelle fiabe “vive un tratto anti-mitico, ovvero la volontà di prendere all’amo il mondo incantato”, e lo stile fiabesco ha proprio il compito di spezzare ogni volta il sortilegio. L’ontologia della fiaba è la più elementare: aderisce fedelmente alla finitezza e fragilità del vivente, a cui per principio non può mentire, perché ne rispecchia la caparbia volontà di autoconservazione trasfigurata in sapienza universale. Si tratta semplicemente di ciò che minaccia la vita e dei mezzi per cavarsela. “La caparbia, ininterrotta lezione delle fiabe è la vittoria sulla legge di necessità e nient’altro, perché nient’altro c’è da imparare su questa terra”, perché il cammino della fiaba “s’inizia senza speranza terrena” e si conclude col superamento quasi soprannaturale del pericolo: “A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A colui che senza speranza si affida all’insperabile” (così Cristina Campo, “Gli imperdonabili”).
1989
fiaba; mito; magia; ontologia; autoconservazione; ragione; follia; profezia; paesaggio; montagna; Romanticismo; Bloch; Benjamin; Lukács; Blumenberg
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