L'articolo esamina l'elaborazione concettuale, interpretativa ed esecutiva del sistema di involucro applicato nel Jüdisches Museum a Berlino, progettato da Daniel Libeskind. I sistemi e le superfici dell'involucro partecipano, secondo alcune poetiche della contemporaneità, alla opposizione nei confronti delle teorie, degli stili e dei linguaggi, come anche dei metodi e dei criteri "scientifici" (riferiti alla necessità di eseguire e di "spiegare" il progetto e le facciate in termini prestazionali, produttivi ed economici) che allontanano dalla cognizione e dalla trasposizione dei contenuti concettuali e analogici dell'architettura. All'interno di questo scenario, l'opera di Daniel Libeskind si propone di uscire dalla condizione architettonica e, in particolare, formale di natura oggettiva, misurabile e quantificabile, proiettandosi verso la dimensione esperenziale, comprensiva e interpretativa dei fenomeni della realtà socio-culturale, storica, immaginifica e della memoria: Libeskind trasporta l'architettura in un ambito di molteplici analogie, secondo un processo di esplorazione, di conoscenza e di "avvicinamento" della realtà come effetto della interconnessione e della sovrapposizione dei contenuti (nella forma di "strati" e di sistemi sia concettuali sia grafici, descrittivi, pittorici e scultorei). L'opera e le sue superfici divengono una "tattica" a cui affidare l'espressione del reale e dell'"invisibile", mentre il progetto manifesta la costruzione di una specie di "mappa immaginaria" con la quale memorizzare l'esperienza. La pianificazione e la razionalizzazione canoniche, tradizionali, sono trasfigurate, trasformate in un assemblaggio di linee, di riferimenti e di riflessioni irregolari: questo insieme, all'apparenza un esperimento di decostruzione della realtà, sostiene la composizione architettonica, in generale, e dell'involucro, in particolare, come una struttura indagabile e percorribile dall'immaginazione.

Superfici della dimensione esperienziale

NASTRI, MASSIMILIANO
2005-01-01

Abstract

L'articolo esamina l'elaborazione concettuale, interpretativa ed esecutiva del sistema di involucro applicato nel Jüdisches Museum a Berlino, progettato da Daniel Libeskind. I sistemi e le superfici dell'involucro partecipano, secondo alcune poetiche della contemporaneità, alla opposizione nei confronti delle teorie, degli stili e dei linguaggi, come anche dei metodi e dei criteri "scientifici" (riferiti alla necessità di eseguire e di "spiegare" il progetto e le facciate in termini prestazionali, produttivi ed economici) che allontanano dalla cognizione e dalla trasposizione dei contenuti concettuali e analogici dell'architettura. All'interno di questo scenario, l'opera di Daniel Libeskind si propone di uscire dalla condizione architettonica e, in particolare, formale di natura oggettiva, misurabile e quantificabile, proiettandosi verso la dimensione esperenziale, comprensiva e interpretativa dei fenomeni della realtà socio-culturale, storica, immaginifica e della memoria: Libeskind trasporta l'architettura in un ambito di molteplici analogie, secondo un processo di esplorazione, di conoscenza e di "avvicinamento" della realtà come effetto della interconnessione e della sovrapposizione dei contenuti (nella forma di "strati" e di sistemi sia concettuali sia grafici, descrittivi, pittorici e scultorei). L'opera e le sue superfici divengono una "tattica" a cui affidare l'espressione del reale e dell'"invisibile", mentre il progetto manifesta la costruzione di una specie di "mappa immaginaria" con la quale memorizzare l'esperienza. La pianificazione e la razionalizzazione canoniche, tradizionali, sono trasfigurate, trasformate in un assemblaggio di linee, di riferimenti e di riflessioni irregolari: questo insieme, all'apparenza un esperimento di decostruzione della realtà, sostiene la composizione architettonica, in generale, e dell'involucro, in particolare, come una struttura indagabile e percorribile dall'immaginazione.
2005
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