Al pari della nuova costruzione, demolire è un atto che appartiene da secoli alla storia urbana. Ma cosa ne è della demolizione nei nuovi scenari della città contemporanea? Quali nuovi ruoli è possibile assegnarle nei processi di trasformazione di una città che intrattiene rapporti complessi e spesso ambigui tanto con il suo passato quanto con il suo futuro? Cosa e quanto si demolisce, e quali prospettive di riconfigurazione dello spazio aprono interventi che non sono mai indolore? Sono domande di questo tipo che vengono poste nelle note che seguono, prendendo spunto da una serie di saggi recenti (cfr. F.C.Nigrelli, (a cura di), Il senso del vuoto. Demolizioni nella città contemporanea, Manifestolibri, Roma 2005). In particolare la riflessione ruota intorno ad alcuni termini ricorrenti - “giustizia”, “bellezza”, “tempo”, “significato” – che si possono rintracciare tra le varie sfaccettature del tema. Anzitutto la demolizione si legittima come azione di risarcimento, come ripristino di uno stato originario violato da un abuso e risignificazione di uno spazio. Uno degli aspetti più rilevanti riguarda il permanere del danno che l’abuso porta con sé, prima di tutto perché il consumo delle risorse territoriali è irreversibile, in secondo luogo perché ogni abuso è negazione della legittimità. A fronte di questa “sottrazione”, che è prima di tutto culturale, cosa ci si può attendere da una demolizione? Il dibattito sembra alquanto disattento su questo aspetto: alle battaglie per promuovere un abbattimento, spesso segue una colpevole superficialità circa i modi del recupero. Ma la questione è rilevante, rimandando ai temi della giustizia: in quanto negazione di un sopruso subito, la demolizione ha una doppia valenza - riappropriazione collettiva di un bene pubblico e rilegittimazione della norma – e può svolgere un ruolo educativo, favorendo il formarsi di una consapevolezza ambientale e suscitando un sentimento collettivo di rispetto. In altre occasioni si demolisce perché si riconosce un danno sul piano estetico, perché si evidenziano opere “incongrue” o “incompatibili”. Sembrerebbe trattarsi di una delle ragioni che tradizionalmente ha guidato diradamenti, eliminazioni di superfetazioni, ripristini di stati originari. Ma l’attenzione va ora spostata sui paesaggi contemporanei, nei quali la demolizione può assumere, sia pure nella sua “normalità”, ruoli nuovi. La questione è complessa, soprattutto perché solleva interrogativi sull’idea di bellezza: in un’epoca in cui non possediamo un linguaggio condiviso che possa indirizzare il disegno della città, in cui il pluralismo delle posizioni, la frammentazione, l’ibridazione sono costitutivi, diventa più difficile definire delle “incompatibilità” che possano fornire argomenti a una demolizione. Contesto, atopia, percezione sono i termini che vanno nuovamente discussi in questo quadro, anche perché la nostra percezione del bello agisce nello stesso tempo come argomento a favore della demolizione (e la categoria estetica è in questi casi contigua a quella di identità) o come freno (dato che conviviamo con un pervasivo senso di sfiducia nella nostra capacità di immaginare il futuro). Più in generale si potrebbe notare che ogni demolizione, dividendo un prima e un dopo, avendo a che fare con la memoria e con la crisi di una idea di lunga durata del manufatto, non può non essere intrecciata alla percezione del tempo. Ad innescare la demolizione possono essere anche motivazioni che riguardano il significato dello spazio: si demolisce per rigenerare uno spazio che ha smarrito la sua identità, per generare un risarcimento. Sullo sfondo di tante diverse accezioni, e nella prospettiva di un miglioramento dei paesaggi ordinari contemporanei, la demolizione può allora essere considerata come una delle tante e diverse pratiche di intervento sullo spazio, come atto più normale e quotidiano. Sempre che si adottino una idea processuale della città e una idea del progetto come atto non definitivo.

Togliere spazio, ridare spazio. Ragioni e opportunità della demolizione

MERLINI, CHIARA
2006-01-01

Abstract

Al pari della nuova costruzione, demolire è un atto che appartiene da secoli alla storia urbana. Ma cosa ne è della demolizione nei nuovi scenari della città contemporanea? Quali nuovi ruoli è possibile assegnarle nei processi di trasformazione di una città che intrattiene rapporti complessi e spesso ambigui tanto con il suo passato quanto con il suo futuro? Cosa e quanto si demolisce, e quali prospettive di riconfigurazione dello spazio aprono interventi che non sono mai indolore? Sono domande di questo tipo che vengono poste nelle note che seguono, prendendo spunto da una serie di saggi recenti (cfr. F.C.Nigrelli, (a cura di), Il senso del vuoto. Demolizioni nella città contemporanea, Manifestolibri, Roma 2005). In particolare la riflessione ruota intorno ad alcuni termini ricorrenti - “giustizia”, “bellezza”, “tempo”, “significato” – che si possono rintracciare tra le varie sfaccettature del tema. Anzitutto la demolizione si legittima come azione di risarcimento, come ripristino di uno stato originario violato da un abuso e risignificazione di uno spazio. Uno degli aspetti più rilevanti riguarda il permanere del danno che l’abuso porta con sé, prima di tutto perché il consumo delle risorse territoriali è irreversibile, in secondo luogo perché ogni abuso è negazione della legittimità. A fronte di questa “sottrazione”, che è prima di tutto culturale, cosa ci si può attendere da una demolizione? Il dibattito sembra alquanto disattento su questo aspetto: alle battaglie per promuovere un abbattimento, spesso segue una colpevole superficialità circa i modi del recupero. Ma la questione è rilevante, rimandando ai temi della giustizia: in quanto negazione di un sopruso subito, la demolizione ha una doppia valenza - riappropriazione collettiva di un bene pubblico e rilegittimazione della norma – e può svolgere un ruolo educativo, favorendo il formarsi di una consapevolezza ambientale e suscitando un sentimento collettivo di rispetto. In altre occasioni si demolisce perché si riconosce un danno sul piano estetico, perché si evidenziano opere “incongrue” o “incompatibili”. Sembrerebbe trattarsi di una delle ragioni che tradizionalmente ha guidato diradamenti, eliminazioni di superfetazioni, ripristini di stati originari. Ma l’attenzione va ora spostata sui paesaggi contemporanei, nei quali la demolizione può assumere, sia pure nella sua “normalità”, ruoli nuovi. La questione è complessa, soprattutto perché solleva interrogativi sull’idea di bellezza: in un’epoca in cui non possediamo un linguaggio condiviso che possa indirizzare il disegno della città, in cui il pluralismo delle posizioni, la frammentazione, l’ibridazione sono costitutivi, diventa più difficile definire delle “incompatibilità” che possano fornire argomenti a una demolizione. Contesto, atopia, percezione sono i termini che vanno nuovamente discussi in questo quadro, anche perché la nostra percezione del bello agisce nello stesso tempo come argomento a favore della demolizione (e la categoria estetica è in questi casi contigua a quella di identità) o come freno (dato che conviviamo con un pervasivo senso di sfiducia nella nostra capacità di immaginare il futuro). Più in generale si potrebbe notare che ogni demolizione, dividendo un prima e un dopo, avendo a che fare con la memoria e con la crisi di una idea di lunga durata del manufatto, non può non essere intrecciata alla percezione del tempo. Ad innescare la demolizione possono essere anche motivazioni che riguardano il significato dello spazio: si demolisce per rigenerare uno spazio che ha smarrito la sua identità, per generare un risarcimento. Sullo sfondo di tante diverse accezioni, e nella prospettiva di un miglioramento dei paesaggi ordinari contemporanei, la demolizione può allora essere considerata come una delle tante e diverse pratiche di intervento sullo spazio, come atto più normale e quotidiano. Sempre che si adottino una idea processuale della città e una idea del progetto come atto non definitivo.
2006
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