Parafrasando una locuzione proposta alcuni anni or sono da Gustavo Zagrebelsky, propongo di chiamare “progetto mite” quella pratica di progettazione capace di presupporre il minor numero di aspetti possibile, tra quelli che la riguardano. Essa va associata ai concetti di «convivenza» e di «compromesso», entro una prospettiva inclusiva che punti all’integrazione mediante «l’intreccio di valori e procedure comunicative» (Zagrebelsky). Entro questa definizione provvisoria, l’attività di progettazione orienta e dà significati ad energie esistenti che in questo modo possono essere riconosciute e liberate, costruisce interattivamente scenari come principi ai quali invita ad aderire, è destinata a innescare dei processi, non necessariamente a concluderli, producendo, innanzi tutto, dei criteri per valutare situazioni indeterminate. Il “progetto mite” aspira ad includere entro di sé le diversità, intendendole come sue parti costitutive, evitando di considerarle come una deviazione da una regola che da esso stesso viene presupposta. Nei suoi esiti esso tende a ridurre la dimensione dello “scarto” propria di ogni attività progettuale. Si tratta di un progetto che agisce orizzontalmente, essendo costruito mediante “incontri”, “mediazioni”, “ponderazioni” e “compromessi”. Un progetto di cui nessuno possa dirsi “autore” esclusivo e possa essere, in questo senso, riconosciuto come proprio da molti. Gli esiti del “progetto mite” possono essere di varia natura. Oltre alla definizione di specifiche configurazioni dello spazio fisico, ma anche in loro alternativa, i suoi esiti possono consistere nella promozione di politiche, nella predisposizione di piani e programmi, nel pronunciamento degli abitanti circa la rappresentazione del loro ambiente di vita che il processo pone alla loro attenzione, ecc. Il processo, inoltre, dà forma ad una serie di prodotti intermedi: si svolgono operazioni di conoscenza del contesto (inteso in senso lato), si mostrano le possibili conseguenze delle ipotesi sul futuro formulate dagli attori, si costruiscono quadri di senso ove si compongono gli eventi imprevisti, ecc.. Un’attività così connotata assume un rilevante ruolo strategico-esplorativo, istruttorio e consultivo. I suoi esiti non sono necessariamente conclusivi e deliberanti, pur costituendo un’attività di selezione e valutazione di azioni successive. Questo atteggiamento comporta necessariamente una specifica concezione del ruolo del tecnico nell’attività di progettazione. Egli trattiene, di fronte all’incertezza, la sua propensione predittiva, per sovrapporre alla situazione problematica nuove immagini in modo interlocutorio ed esplorativo. Si tratta di un modo di progettare critico che, oltre a richiedere un’elevata competenza tecnica (perché solo chi ne dispone può farne a meno), implica senso di responsabilità, prudenza e saggezza. Si sviluppa impiegando uno sguardo ravvicinato e ritmi adeguati alla situazione, nel corso di un processo che è sempre oggetto di un rallentamento (Fareri) rispetto alla velocità che invece vorrebbe imprimergli uno sguardo meno attento, perché guidato da modelli e presupposti riduttivi. Mi sembra di poter dire che, in tal modo, il tecnico eserciti una forma di «capacità negativa» (Keats - Lanzara). Ciò comporta una sospensione della messa in campo del sapere esperto, quasi che egli operi senza conoscenza, senza desiderio, con una «capacità di sostare nel disordine», rifuggendo dalla tentazione di produrre, anzitempo, un ordine generato esclusivamente dall’impazienza, perché sarebbe esclusivamente difensivo (Pagliarani). Per «lasciare essere l’altro quello che è» occorre quindi, momentaneamente, «alleggerirci» da quella «zavorra fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza» (Rovatti) per ascoltare, imparare, includere.

Fenomenologia del "progetto mite": per una pratica progettuale inclusiva delle diversità

INFUSSI, FRANCESCO
2007-01-01

Abstract

Parafrasando una locuzione proposta alcuni anni or sono da Gustavo Zagrebelsky, propongo di chiamare “progetto mite” quella pratica di progettazione capace di presupporre il minor numero di aspetti possibile, tra quelli che la riguardano. Essa va associata ai concetti di «convivenza» e di «compromesso», entro una prospettiva inclusiva che punti all’integrazione mediante «l’intreccio di valori e procedure comunicative» (Zagrebelsky). Entro questa definizione provvisoria, l’attività di progettazione orienta e dà significati ad energie esistenti che in questo modo possono essere riconosciute e liberate, costruisce interattivamente scenari come principi ai quali invita ad aderire, è destinata a innescare dei processi, non necessariamente a concluderli, producendo, innanzi tutto, dei criteri per valutare situazioni indeterminate. Il “progetto mite” aspira ad includere entro di sé le diversità, intendendole come sue parti costitutive, evitando di considerarle come una deviazione da una regola che da esso stesso viene presupposta. Nei suoi esiti esso tende a ridurre la dimensione dello “scarto” propria di ogni attività progettuale. Si tratta di un progetto che agisce orizzontalmente, essendo costruito mediante “incontri”, “mediazioni”, “ponderazioni” e “compromessi”. Un progetto di cui nessuno possa dirsi “autore” esclusivo e possa essere, in questo senso, riconosciuto come proprio da molti. Gli esiti del “progetto mite” possono essere di varia natura. Oltre alla definizione di specifiche configurazioni dello spazio fisico, ma anche in loro alternativa, i suoi esiti possono consistere nella promozione di politiche, nella predisposizione di piani e programmi, nel pronunciamento degli abitanti circa la rappresentazione del loro ambiente di vita che il processo pone alla loro attenzione, ecc. Il processo, inoltre, dà forma ad una serie di prodotti intermedi: si svolgono operazioni di conoscenza del contesto (inteso in senso lato), si mostrano le possibili conseguenze delle ipotesi sul futuro formulate dagli attori, si costruiscono quadri di senso ove si compongono gli eventi imprevisti, ecc.. Un’attività così connotata assume un rilevante ruolo strategico-esplorativo, istruttorio e consultivo. I suoi esiti non sono necessariamente conclusivi e deliberanti, pur costituendo un’attività di selezione e valutazione di azioni successive. Questo atteggiamento comporta necessariamente una specifica concezione del ruolo del tecnico nell’attività di progettazione. Egli trattiene, di fronte all’incertezza, la sua propensione predittiva, per sovrapporre alla situazione problematica nuove immagini in modo interlocutorio ed esplorativo. Si tratta di un modo di progettare critico che, oltre a richiedere un’elevata competenza tecnica (perché solo chi ne dispone può farne a meno), implica senso di responsabilità, prudenza e saggezza. Si sviluppa impiegando uno sguardo ravvicinato e ritmi adeguati alla situazione, nel corso di un processo che è sempre oggetto di un rallentamento (Fareri) rispetto alla velocità che invece vorrebbe imprimergli uno sguardo meno attento, perché guidato da modelli e presupposti riduttivi. Mi sembra di poter dire che, in tal modo, il tecnico eserciti una forma di «capacità negativa» (Keats - Lanzara). Ciò comporta una sospensione della messa in campo del sapere esperto, quasi che egli operi senza conoscenza, senza desiderio, con una «capacità di sostare nel disordine», rifuggendo dalla tentazione di produrre, anzitempo, un ordine generato esclusivamente dall’impazienza, perché sarebbe esclusivamente difensivo (Pagliarani). Per «lasciare essere l’altro quello che è» occorre quindi, momentaneamente, «alleggerirci» da quella «zavorra fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza» (Rovatti) per ascoltare, imparare, includere.
2007
Città e azione pubblica. Riformismo al plurale
9788843042241
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11311/552018
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