Il contributo mette in dubbio l’approccio prevalentemente analitico alla progettazione, sostenendo, sostenendo la necessità di ricondurla alle istanze di trasformazione della città e del territorio e la natura intuitiva dell’ideazione architettonica. La questione delle “macchine del progetto” viene inteso come la prefigurazione in senso unitario dell’architettura di un edificio, dove tutte le parti, con un proprio valore di posizione e un ruolo riconoscibile, si integrano al medesimo fine di allocare e promuovere attività in relazione tra loro. Per argomentare questo punto di vista, il testo si basa sui materiali di una ricerca universitaria sul ruolo poleogenetico dell’antica cittadella e dell’insediamento gesuitico in alcune città emiliane e lombarde, focalizzando l’attenzione su tre esempi: Palazzo Farnese a Piacenza, Jacopo Barozzi da Vignola, 1545-1630 (“una macchinaccia” secondo l’ingegnere militare Francesco Paciotto); il Collegio Borromeo di Pavia, Pellegrino Tibaldi, 1561; La villa-palazzo delle Albere a Trento, 1550-1558 Ciò che accomuna questi edifici – entrambi connotati dallo sviluppo in altezza – è il forte carattere di introversione: un programma architettonico complesso facilitare la compresenza di diverse attività e si avvale di percorsi differenziati e gerarchizzati. D’altra parte queste “macchine” rendono concrete alcune questioni compositive: il dimensionamento delle parti è legato alle attività, sussiste un sistema di relazioni tra le parti, la prefigurazione dell’architettura ne assume il ruolo urbano, in un momento in cui la città si va trasformando nella sua struttura.
Macchinacce, ovvero edifici che costruiscono insediamento
PALLINI, CRISTINA
2004-01-01
Abstract
Il contributo mette in dubbio l’approccio prevalentemente analitico alla progettazione, sostenendo, sostenendo la necessità di ricondurla alle istanze di trasformazione della città e del territorio e la natura intuitiva dell’ideazione architettonica. La questione delle “macchine del progetto” viene inteso come la prefigurazione in senso unitario dell’architettura di un edificio, dove tutte le parti, con un proprio valore di posizione e un ruolo riconoscibile, si integrano al medesimo fine di allocare e promuovere attività in relazione tra loro. Per argomentare questo punto di vista, il testo si basa sui materiali di una ricerca universitaria sul ruolo poleogenetico dell’antica cittadella e dell’insediamento gesuitico in alcune città emiliane e lombarde, focalizzando l’attenzione su tre esempi: Palazzo Farnese a Piacenza, Jacopo Barozzi da Vignola, 1545-1630 (“una macchinaccia” secondo l’ingegnere militare Francesco Paciotto); il Collegio Borromeo di Pavia, Pellegrino Tibaldi, 1561; La villa-palazzo delle Albere a Trento, 1550-1558 Ciò che accomuna questi edifici – entrambi connotati dallo sviluppo in altezza – è il forte carattere di introversione: un programma architettonico complesso facilitare la compresenza di diverse attività e si avvale di percorsi differenziati e gerarchizzati. D’altra parte queste “macchine” rendono concrete alcune questioni compositive: il dimensionamento delle parti è legato alle attività, sussiste un sistema di relazioni tra le parti, la prefigurazione dell’architettura ne assume il ruolo urbano, in un momento in cui la città si va trasformando nella sua struttura.File | Dimensione | Formato | |
---|---|---|---|
Macchinacce_01.pdf
Accesso riservato
Descrizione: estratto in pdf
:
Publisher’s version
Dimensione
1.84 MB
Formato
Adobe PDF
|
1.84 MB | Adobe PDF | Visualizza/Apri |
I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.