La progressista soluzione del dicotomico enigma collocato tra concentrazione urbana e distribuzione fluida territoriale, e la risposta alle esigenze di identificazione in una nuova architettura proiettata al futuro, individua nel tema della costruzione verticale in Italia un'occasione significativa per alimentare il dibattito sulla costruzione della città: nei primi decenni del Novecento lo scenario architettonico e culturale italiano, al pari di quello europeo, perimetra l'attenzione sugli sviluppi delle costruzioni in altezza in America, divenendo luogo critico di osservazione, mai passivo seguace di meccaniche emulazioni. "La storia del grattacielo è la storia del confronto tra ricerca formale e sperimentazione strutturale, del rapporto tra tecnologia e immaginario che è all'origine di questo tipo edilizio. Nella società urbana contemporanea il grattacielo rappresenta uno dei principali protagonisti del processo di creazione di emozionalità dello spazio antropizzato"1. Nei primi decenni del Novecento, la lettura della città moderna quale organismo sviluppato in altezza coinvolge lo scenario architettonico e culturale italiano che, in simbiosi con quello europeo, focalizza l'attenzione sugli sviluppi tecnologici e le suggestioni formali delle costruzioni verticali derivanti dal contesto statunitense. Il tessuto delle città europee, sebbene non refrattario alla verticalità in quanto tipo edilizio storicamente presente sin dai tempi medievali, esibisce una tenace resistenza a incorporare le innovative caratteristiche dell'edificio alto, identificando, su tale fenomeno, un ambito di osservazione colta e reinterpretazione critica più che di passiva emulazione. Manfredo Tafuri, commentando la Velasca, sottolinea che essa fu progettata per insegnare a vedere. Una prospettiva, come quella delle parole di Montesquieu, che fa del grattacielo uno strumento per una visione complessiva, nell'auspicio che continui a rappresentare il simbolo di una modernità florida di significati, fondato sull'armonia tra componente formale e componente tecnica e basato sulla continuità tra passato e presente, opponendosi alla divaricazione, pur nella capacità di cogliere le rispettive specificità, tra lettura dell'edificio e lettura della città. Qyella Torre Velasco che, nel suo ruolo di "edificio da metropoli, a stratificazione funzionale"12, esito di calviniana "esattezza", senza rinunciare all'interesse per la tecnologia avanzata, esprime volontà d'ordine, di equilibrio, di armonia nella sua spinta verso la verticalità. Una verticalità intesa nella logica dell'insegnamento di Vittoriano Viganò, quando immagina la sua Verticale del 1961-62 in piazza Duomo a Milano13, quale omaggio al padre Vico, alla tecnologia e alla sua verità: non una rincorsa all'altezza bensì una spinta "programmaticamente provvisoria" verso il superamento dei vincoli e la realizzazione dei sogni. La Velasca, afferma Aurelio Cortesi14, è "un'opera collettiva e al tempo stesso un gesto d'appartenenza alla città; la torre Velasca è l>inizio: un'opera d'arte che riassume il passato e organizza il futuro". L'auspicio di un più approfondito dibattito sulle strategie e metodologie di controllo, evoluzione e forma della città dovranno interessare tutti gli ambiti disciplinari coinvolti: la tecnologia costituisce in tal senso uno strumento utile al dominio degli intendimenti culturali e progettuali di un'epoca ad elevata complessità. L'architettura verticale, collocata tra citazioni formali e contaminazioni tecnologiche, incorpora nel contesto attuale un attendibile tema di confronto delle tendenze e dello sviluppo della costruzione contemporanea, al fine di restituire all'edificio alto identità e dignità, in nome di una paziente lettura della storia e di una sua profonda e colta rivisitazione.
V come Velasca, V come Verticalità. Milano come osservatorio italiano
E. Faroldi
2025-01-01
Abstract
La progressista soluzione del dicotomico enigma collocato tra concentrazione urbana e distribuzione fluida territoriale, e la risposta alle esigenze di identificazione in una nuova architettura proiettata al futuro, individua nel tema della costruzione verticale in Italia un'occasione significativa per alimentare il dibattito sulla costruzione della città: nei primi decenni del Novecento lo scenario architettonico e culturale italiano, al pari di quello europeo, perimetra l'attenzione sugli sviluppi delle costruzioni in altezza in America, divenendo luogo critico di osservazione, mai passivo seguace di meccaniche emulazioni. "La storia del grattacielo è la storia del confronto tra ricerca formale e sperimentazione strutturale, del rapporto tra tecnologia e immaginario che è all'origine di questo tipo edilizio. Nella società urbana contemporanea il grattacielo rappresenta uno dei principali protagonisti del processo di creazione di emozionalità dello spazio antropizzato"1. Nei primi decenni del Novecento, la lettura della città moderna quale organismo sviluppato in altezza coinvolge lo scenario architettonico e culturale italiano che, in simbiosi con quello europeo, focalizza l'attenzione sugli sviluppi tecnologici e le suggestioni formali delle costruzioni verticali derivanti dal contesto statunitense. Il tessuto delle città europee, sebbene non refrattario alla verticalità in quanto tipo edilizio storicamente presente sin dai tempi medievali, esibisce una tenace resistenza a incorporare le innovative caratteristiche dell'edificio alto, identificando, su tale fenomeno, un ambito di osservazione colta e reinterpretazione critica più che di passiva emulazione. Manfredo Tafuri, commentando la Velasca, sottolinea che essa fu progettata per insegnare a vedere. Una prospettiva, come quella delle parole di Montesquieu, che fa del grattacielo uno strumento per una visione complessiva, nell'auspicio che continui a rappresentare il simbolo di una modernità florida di significati, fondato sull'armonia tra componente formale e componente tecnica e basato sulla continuità tra passato e presente, opponendosi alla divaricazione, pur nella capacità di cogliere le rispettive specificità, tra lettura dell'edificio e lettura della città. Qyella Torre Velasco che, nel suo ruolo di "edificio da metropoli, a stratificazione funzionale"12, esito di calviniana "esattezza", senza rinunciare all'interesse per la tecnologia avanzata, esprime volontà d'ordine, di equilibrio, di armonia nella sua spinta verso la verticalità. Una verticalità intesa nella logica dell'insegnamento di Vittoriano Viganò, quando immagina la sua Verticale del 1961-62 in piazza Duomo a Milano13, quale omaggio al padre Vico, alla tecnologia e alla sua verità: non una rincorsa all'altezza bensì una spinta "programmaticamente provvisoria" verso il superamento dei vincoli e la realizzazione dei sogni. La Velasca, afferma Aurelio Cortesi14, è "un'opera collettiva e al tempo stesso un gesto d'appartenenza alla città; la torre Velasca è l>inizio: un'opera d'arte che riassume il passato e organizza il futuro". L'auspicio di un più approfondito dibattito sulle strategie e metodologie di controllo, evoluzione e forma della città dovranno interessare tutti gli ambiti disciplinari coinvolti: la tecnologia costituisce in tal senso uno strumento utile al dominio degli intendimenti culturali e progettuali di un'epoca ad elevata complessità. L'architettura verticale, collocata tra citazioni formali e contaminazioni tecnologiche, incorpora nel contesto attuale un attendibile tema di confronto delle tendenze e dello sviluppo della costruzione contemporanea, al fine di restituire all'edificio alto identità e dignità, in nome di una paziente lettura della storia e di una sua profonda e colta rivisitazione.| File | Dimensione | Formato | |
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Descrizione: Emilio Faroldi _ V come Velasca, V come Verticalità. Milano come osservatorio italiano
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