Se per noi che proveniamo da una cultura occidentale, la scelta di una città, di un luogo o di una parte di questi come oggetto di studio, come riferimento di progetto, costituisce una scelta quasi ideologica, «unʼambizione dellʼarchitettura che segna in modo irrevocabile la pratica progettuale per quelle che sono le implicazioni, per quello che è il significato di una ricerca compositiva», per una certa generazione di architetti sudamericani il tentativo di avviare una ricerca verso una «libera tipicità caso per caso, punto a punto» riporta la questio ne insidiosa dei riferimenti verso altri caratteri eterogenei, evitando quel «presentimento critico di disgregazione, ma come principio di relatività tipologica, stazione di partenza per cominciare a ripensare il mondo abitato attraverso reali, differenti e contraddittorie, necessità della comunità, articolate e ricomposte per successive approssimazioni nel concreto allegorico dellʼarchitettura» escludendo sia il rischio neovernacolare che una poetica dellʼadattamento. Ho scelto di intervistare Bruno Barla Hidalgo6 perché, tra i protagonisti di quel laboratorio latinoamericano, descritto da Guido Canella nel suo editoriale di «Zodiac» per i cinquecento anni della scoperta dellʼAmerica, rappresenta in pieno lo spirito di un pensiero selvaggio lontano da sovrastrutture e legato a una condizione contestuale «paradossalmente avvantaggiata dallʼessenza babelica di una tradizione fondata proprio sul paradigma della diversità-alterità». Ho scelto Bruno perché in questo numero speciale di Stoà che ci chiama in causa, cercavo una persona speciale che provenisse da quel mondo lontano che ho tentato in questi anni di conoscere e studiare.

Un fuoco divino. Bruno Barla in conversazione con Tommaso Brighenti

T. Brighenti
2024-01-01

Abstract

Se per noi che proveniamo da una cultura occidentale, la scelta di una città, di un luogo o di una parte di questi come oggetto di studio, come riferimento di progetto, costituisce una scelta quasi ideologica, «unʼambizione dellʼarchitettura che segna in modo irrevocabile la pratica progettuale per quelle che sono le implicazioni, per quello che è il significato di una ricerca compositiva», per una certa generazione di architetti sudamericani il tentativo di avviare una ricerca verso una «libera tipicità caso per caso, punto a punto» riporta la questio ne insidiosa dei riferimenti verso altri caratteri eterogenei, evitando quel «presentimento critico di disgregazione, ma come principio di relatività tipologica, stazione di partenza per cominciare a ripensare il mondo abitato attraverso reali, differenti e contraddittorie, necessità della comunità, articolate e ricomposte per successive approssimazioni nel concreto allegorico dellʼarchitettura» escludendo sia il rischio neovernacolare che una poetica dellʼadattamento. Ho scelto di intervistare Bruno Barla Hidalgo6 perché, tra i protagonisti di quel laboratorio latinoamericano, descritto da Guido Canella nel suo editoriale di «Zodiac» per i cinquecento anni della scoperta dellʼAmerica, rappresenta in pieno lo spirito di un pensiero selvaggio lontano da sovrastrutture e legato a una condizione contestuale «paradossalmente avvantaggiata dallʼessenza babelica di una tradizione fondata proprio sul paradigma della diversità-alterità». Ho scelto Bruno perché in questo numero speciale di Stoà che ci chiama in causa, cercavo una persona speciale che provenisse da quel mondo lontano che ho tentato in questi anni di conoscere e studiare.
2024
Bruno Barla, Poesia, Architettura, Progetto, Composizione, Pontificia Universidad Católica, Valparaíso
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