In Italia il sistema dell’arte contemporanea è stato un fenomeno complesso quanto sfuggente, non sempre sostenuto dalle istituzioni statali, quanto dalla pervicacia e solerzia dei galleristi privati. Sin dall’inizio del Novecento, Milano si è connotata come una delle sedi principali di innumerevoli gallerie ma, a meno di alcune eccezioni, gli spazi risentono per lo più di semplici accomodamenti, forse dovuti all’origine domestica della galleria d’arte, alla mancanza di una visione allestitiva da parte del gallerista o alla loro frequentazione da parte di un pubblico ristretto. Nel secondo dopoguerra, nella città meneghina la galleria d’arte privata inizia a essere progettata da architetti, che qualificano le sedi espositive con interventi misurati quanto innovativi. Talora con pochi mezzi a disposizione, i progettisti operano scelte sperimentali, studiando complessivamente lo spazio espositivo, l’ingresso, i dispositivi per allestire le opere. Dialogano apertamente con i committenti e i loro interventi sono pubblicati dalle riviste del settore, delineando un possibile intreccio fra l’architettura di interni e l’arte contemporanea. Si tratta di pochi esempi, tutti dispersi se non per alcuni disegni d’archivio e la pubblicistica dell’epoca, ma che tratteggiano una dinamica stagione culturale della città, in cui le gallerie private hanno contribuito a rendere visibile "l’arte al paese dell’arte" (Brusatin 2007), svolgendo cioè un ruolo attivo nell’"esternalizzazione ed educazione al vedere" (Ibid.). Né negozio né museo, ma forse un’ibridazione di entrambi, la galleria d’arte privata costituisce una tipologia architettonica di non facile collocazione nel panorama della storia dell’architettura, fortemente identificata dal gallerista e le sue scelte artistiche: dal dopoguerra agli anni settanta a Milano è stata teatro di interessanti sperimentazioni sullo spazio e il suo allestimento da parte di alcuni architetti.
Le gallerie degli architetti a Milano. Spazi per esporre e vendere l’arte contemporanea
I. Forino
2024-01-01
Abstract
In Italia il sistema dell’arte contemporanea è stato un fenomeno complesso quanto sfuggente, non sempre sostenuto dalle istituzioni statali, quanto dalla pervicacia e solerzia dei galleristi privati. Sin dall’inizio del Novecento, Milano si è connotata come una delle sedi principali di innumerevoli gallerie ma, a meno di alcune eccezioni, gli spazi risentono per lo più di semplici accomodamenti, forse dovuti all’origine domestica della galleria d’arte, alla mancanza di una visione allestitiva da parte del gallerista o alla loro frequentazione da parte di un pubblico ristretto. Nel secondo dopoguerra, nella città meneghina la galleria d’arte privata inizia a essere progettata da architetti, che qualificano le sedi espositive con interventi misurati quanto innovativi. Talora con pochi mezzi a disposizione, i progettisti operano scelte sperimentali, studiando complessivamente lo spazio espositivo, l’ingresso, i dispositivi per allestire le opere. Dialogano apertamente con i committenti e i loro interventi sono pubblicati dalle riviste del settore, delineando un possibile intreccio fra l’architettura di interni e l’arte contemporanea. Si tratta di pochi esempi, tutti dispersi se non per alcuni disegni d’archivio e la pubblicistica dell’epoca, ma che tratteggiano una dinamica stagione culturale della città, in cui le gallerie private hanno contribuito a rendere visibile "l’arte al paese dell’arte" (Brusatin 2007), svolgendo cioè un ruolo attivo nell’"esternalizzazione ed educazione al vedere" (Ibid.). Né negozio né museo, ma forse un’ibridazione di entrambi, la galleria d’arte privata costituisce una tipologia architettonica di non facile collocazione nel panorama della storia dell’architettura, fortemente identificata dal gallerista e le sue scelte artistiche: dal dopoguerra agli anni settanta a Milano è stata teatro di interessanti sperimentazioni sullo spazio e il suo allestimento da parte di alcuni architetti.File | Dimensione | Formato | |
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