La prima edizione anglosassone del corposo The Dictionary of Urbanism (Cowan, 2005), un best-seller sui generis nel panorama degli studi urbani, contiene una pungente introduzione di Peter Hall in cui il noto accademico britannico sottolinea una specifica tendenza ‘a ondate’ nella storia della produzione di glossari, con carenze croniche in alcuni campi del sapere, town planning incluso. Il lavoro di Robert Cowan con il The Dictionary of Urbanism prova a colmare in parte questa lacuna ma, ci dice Peter Hall, apre anche una serie di questioni non solo semantiche, che tornano con una certa frequenza nel pensiero urbanistico contemporaneo e che possono essere forzosamente condensate nel titolo del noto e controverso articolo di Aaron Wildavsky: «If planning is everything, maybe it’s nothing» (Wildavsky, 1973). La formalizzazione sinottica dei lemmi di una disciplina, per quanto intrinsecamente evolutiva e incompleta, è un’operazione utile per limitare i livelli di ambiguità, per depotenziare le sempre più numerose buzzword che popolano il discorso sulla città, ed è anche un potente operatore di de-costruzione dei significati e di chiarificazione del pensiero. L’autore del dizionario, nel suo personale preambolo, ci aiuta a mettere a fuoco meglio uno dei nodi della questione: tutti i saperi specialistici producono ‘tecnoletti’, recinti linguistici entro cui consolidare una comunicazione anche solo apparentemente stabile, con il rischio non secondario di far proliferare i dialetti specialistici: «Most languages are collections of dialects. The language of urban specialist is itself a collection of different dialects spoken by, for example, planners and architects. As with all dialects, there is a limited degree of mutual understanding between their speakers» (Cowan, 2005: xiv). Alla domanda ‘che lingua parlano i planners?’ il Dictionary fornisce indirettamente alcune possibili risposte partendo dal presupposto che si debba lavorare su una partitura aperta, a cui partecipano un numero ampio di sottoinsiemi linguistici diversi: «We communicate about the built environment with an astonishing wealth of words and concepts from dry legalistic formulae to street slang» (Cowan, 2005: xiv). Nella sua review al dizionario Alan Powers torna sulla questione stigmatizzando il multilinguismo degli urbanisti come un’arma a doppio taglio che da un lato permette di estendere le radici semantiche della disciplina, dall’altro apre all’incognita di una babele comunicativa: «Do other disciplines develop vocabularies of equivalent diversity? Perhaps not, since they are neither blessed nor cursed with the almost infinite extension of planning across the map of knowledge» (Powers, 2006: 64). Si intravedono qui due questioni connesse e apparentemente dicotomiche: il tranello, paventato da Peter Hall, del lemma passepartout, appiattente, camaleontico, sempre più privo di una reale efficacia comunicativa (valga per tutti l’endemico smartcity) o, viceversa, la seduttività dell’illimitata sovrapposizione di gerghi specialistici. Prima di iniziare dalla fatidica lettera A (curiosa la scelta della prima voce del dizionario: abandoned city) Robert Cownan prova a trarsi d’impaccio: «Speaking and writing effectively about urbanism depends on defining terms for specific contexts. Urban movements need their lexicons. Planning documents need their glossaries. But individual words can not do the hard work for us» (Cowan, 2005: xvii). I lemmi, da soli, non possono fare tutto il lavoro necessario alla contestualizzazione e all’adattamento agli interlocutori, alle pratiche, alle politiche; cosa può aiutarli, oltre all’inevitabile nostra azione critico-selettiva? Il modo con cui il Dictionary muove in questa direzione è interessante e in parte inatteso: l’autore costruisce una trama fitta di rimandi, spesso rarefatti, fra le parole e un repertorio scelto di concisi disegni al tratto d’inchiostro, pensati e realizzati dall’illustratrice Lucinda Rogers. Alan Powers non nasconde i suoi dubbi riguardo alla completa assenza, nel testo, di rappresentazioni più consone e familiari agli urbanisti: mappe, piani, materiale storico e autoriale: «The result is that in a book so heavily devoted to ideas, the illustrations miss the chance of explaining them visually as well as verbally, and readers will have to look elsewhere for this level of information» (Powers, 2006: 65). Eppure, guardando più a fondo, possiamo veder le cose in modo diverso. Cownan e Rogers scelgono consapevolmente di non usare la rappresentazione come strumento didascalico che spieghi visivamente quello che le descrizioni scritte già definiscono. L’illustrazione si concentra sui lemmi più capaci di aprire a una ramificazione di relazioni che il solo linguaggio descrittivo limiterebbe, si vedano a titolo di esempio i disegni che accompagnano parole ‘iconiche’ come: social space, edgelands, diversity, anywhere development, urban buzz. In questo ‘ritorno all’illustrazione’ The Dictionary of Urbanism si è dimostrato precursore di quella che oggi è, per alcuni, persino una moda, un sincretismo visuale che trova ampio spazio nella comunicazione delle politiche urbane, nei documenti di analisi territoriale, nei report delle agenzie internazionali, nelle relazioni ai progetti architettonici

Drawing Urban Consciousness

Villa Daniele
2020-01-01

Abstract

La prima edizione anglosassone del corposo The Dictionary of Urbanism (Cowan, 2005), un best-seller sui generis nel panorama degli studi urbani, contiene una pungente introduzione di Peter Hall in cui il noto accademico britannico sottolinea una specifica tendenza ‘a ondate’ nella storia della produzione di glossari, con carenze croniche in alcuni campi del sapere, town planning incluso. Il lavoro di Robert Cowan con il The Dictionary of Urbanism prova a colmare in parte questa lacuna ma, ci dice Peter Hall, apre anche una serie di questioni non solo semantiche, che tornano con una certa frequenza nel pensiero urbanistico contemporaneo e che possono essere forzosamente condensate nel titolo del noto e controverso articolo di Aaron Wildavsky: «If planning is everything, maybe it’s nothing» (Wildavsky, 1973). La formalizzazione sinottica dei lemmi di una disciplina, per quanto intrinsecamente evolutiva e incompleta, è un’operazione utile per limitare i livelli di ambiguità, per depotenziare le sempre più numerose buzzword che popolano il discorso sulla città, ed è anche un potente operatore di de-costruzione dei significati e di chiarificazione del pensiero. L’autore del dizionario, nel suo personale preambolo, ci aiuta a mettere a fuoco meglio uno dei nodi della questione: tutti i saperi specialistici producono ‘tecnoletti’, recinti linguistici entro cui consolidare una comunicazione anche solo apparentemente stabile, con il rischio non secondario di far proliferare i dialetti specialistici: «Most languages are collections of dialects. The language of urban specialist is itself a collection of different dialects spoken by, for example, planners and architects. As with all dialects, there is a limited degree of mutual understanding between their speakers» (Cowan, 2005: xiv). Alla domanda ‘che lingua parlano i planners?’ il Dictionary fornisce indirettamente alcune possibili risposte partendo dal presupposto che si debba lavorare su una partitura aperta, a cui partecipano un numero ampio di sottoinsiemi linguistici diversi: «We communicate about the built environment with an astonishing wealth of words and concepts from dry legalistic formulae to street slang» (Cowan, 2005: xiv). Nella sua review al dizionario Alan Powers torna sulla questione stigmatizzando il multilinguismo degli urbanisti come un’arma a doppio taglio che da un lato permette di estendere le radici semantiche della disciplina, dall’altro apre all’incognita di una babele comunicativa: «Do other disciplines develop vocabularies of equivalent diversity? Perhaps not, since they are neither blessed nor cursed with the almost infinite extension of planning across the map of knowledge» (Powers, 2006: 64). Si intravedono qui due questioni connesse e apparentemente dicotomiche: il tranello, paventato da Peter Hall, del lemma passepartout, appiattente, camaleontico, sempre più privo di una reale efficacia comunicativa (valga per tutti l’endemico smartcity) o, viceversa, la seduttività dell’illimitata sovrapposizione di gerghi specialistici. Prima di iniziare dalla fatidica lettera A (curiosa la scelta della prima voce del dizionario: abandoned city) Robert Cownan prova a trarsi d’impaccio: «Speaking and writing effectively about urbanism depends on defining terms for specific contexts. Urban movements need their lexicons. Planning documents need their glossaries. But individual words can not do the hard work for us» (Cowan, 2005: xvii). I lemmi, da soli, non possono fare tutto il lavoro necessario alla contestualizzazione e all’adattamento agli interlocutori, alle pratiche, alle politiche; cosa può aiutarli, oltre all’inevitabile nostra azione critico-selettiva? Il modo con cui il Dictionary muove in questa direzione è interessante e in parte inatteso: l’autore costruisce una trama fitta di rimandi, spesso rarefatti, fra le parole e un repertorio scelto di concisi disegni al tratto d’inchiostro, pensati e realizzati dall’illustratrice Lucinda Rogers. Alan Powers non nasconde i suoi dubbi riguardo alla completa assenza, nel testo, di rappresentazioni più consone e familiari agli urbanisti: mappe, piani, materiale storico e autoriale: «The result is that in a book so heavily devoted to ideas, the illustrations miss the chance of explaining them visually as well as verbally, and readers will have to look elsewhere for this level of information» (Powers, 2006: 65). Eppure, guardando più a fondo, possiamo veder le cose in modo diverso. Cownan e Rogers scelgono consapevolmente di non usare la rappresentazione come strumento didascalico che spieghi visivamente quello che le descrizioni scritte già definiscono. L’illustrazione si concentra sui lemmi più capaci di aprire a una ramificazione di relazioni che il solo linguaggio descrittivo limiterebbe, si vedano a titolo di esempio i disegni che accompagnano parole ‘iconiche’ come: social space, edgelands, diversity, anywhere development, urban buzz. In questo ‘ritorno all’illustrazione’ The Dictionary of Urbanism si è dimostrato precursore di quella che oggi è, per alcuni, persino una moda, un sincretismo visuale che trova ampio spazio nella comunicazione delle politiche urbane, nei documenti di analisi territoriale, nei report delle agenzie internazionali, nelle relazioni ai progetti architettonici
2020
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11311/1160450
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