I piccoli borghi, così come le città, non sono opere d’arte. Sono luoghi di vita e di cambiamento, mescolanza di economie e paesaggi, incrocio di generazioni. Quando un terremoto li distrugge non è agli storici dell’arte o ai cultori dei beni culturali che possiamo chiedere le risposte (o almeno non tutte). Neppure ai soli ingegneri e architetti. Servono competenze varie che sappiano confrontarsi anche duramente sulle soluzioni possibili. Così non accade, mai. Dopo ogni evento catastrofico, il Paese – i suoi politici, i suoi mezzi di informazione - tende rapidamente a convergere intorno a una posizione semplice e rassicurante. Non c’è tempo per il pensiero e per il dubbio. Più un fatto è complesso e difficile da risolvere, più sono immediate e semplici le ricette proposte. Più un fatto è complesso, più tendono a tacere quelli che sarebbero deputati a parlarne: ingegneri, sismologi, geologi e scienziati. Tacciono, salvo eccezioni, perché è difficile spiegare e chiarire questioni spesso tecniche facendosi capire dai non addetti ai lavori; tacciono perché il grande pubblico è più disponibile ad ascoltare la storia personale delle vittime o la voce di un noto critico d’arte piuttosto che le argomentazioni dello scienziato. Alla fascinazione dell’uomo di lettere faremo sempre fatica a contrapporre il dubbio metodico dell’uomo di scienza. Così, nel silenzio di chi dovrebbe parlare ma non ha gli strumenti mediatici per farlo e nel clima di emotività che inevitabilmente si genera, prevale lo slogan più facile e consolatorio. D’altro canto, come in tutti gli eventi drammatici (attentati o incidenti), è l’emotività ad animare il dibattito, fino a che il tema si consuma e scompare dall’interesse collettivo, dopo pochi giorni o settimane.

Dov’era, com’era. Da slogan della ricostruzione a slogan dell’immobilismo

E. Granata;
2020-01-01

Abstract

I piccoli borghi, così come le città, non sono opere d’arte. Sono luoghi di vita e di cambiamento, mescolanza di economie e paesaggi, incrocio di generazioni. Quando un terremoto li distrugge non è agli storici dell’arte o ai cultori dei beni culturali che possiamo chiedere le risposte (o almeno non tutte). Neppure ai soli ingegneri e architetti. Servono competenze varie che sappiano confrontarsi anche duramente sulle soluzioni possibili. Così non accade, mai. Dopo ogni evento catastrofico, il Paese – i suoi politici, i suoi mezzi di informazione - tende rapidamente a convergere intorno a una posizione semplice e rassicurante. Non c’è tempo per il pensiero e per il dubbio. Più un fatto è complesso e difficile da risolvere, più sono immediate e semplici le ricette proposte. Più un fatto è complesso, più tendono a tacere quelli che sarebbero deputati a parlarne: ingegneri, sismologi, geologi e scienziati. Tacciono, salvo eccezioni, perché è difficile spiegare e chiarire questioni spesso tecniche facendosi capire dai non addetti ai lavori; tacciono perché il grande pubblico è più disponibile ad ascoltare la storia personale delle vittime o la voce di un noto critico d’arte piuttosto che le argomentazioni dello scienziato. Alla fascinazione dell’uomo di lettere faremo sempre fatica a contrapporre il dubbio metodico dell’uomo di scienza. Così, nel silenzio di chi dovrebbe parlare ma non ha gli strumenti mediatici per farlo e nel clima di emotività che inevitabilmente si genera, prevale lo slogan più facile e consolatorio. D’altro canto, come in tutti gli eventi drammatici (attentati o incidenti), è l’emotività ad animare il dibattito, fino a che il tema si consuma e scompare dall’interesse collettivo, dopo pochi giorni o settimane.
2020
terremoto ricostruzione cambiamenti sociali
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11311/1138680
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