Il saggio ripercorre, alla luce di fonti inedite, la storia della chiesa dei Santi Gervasio e Protasio, una delle più antiche di Mantova. Fondata forse nel IX secolo e ricostruita poco prima della metà del XII (a quest’epoca risalirebbe il campanile), è documentata nelle carte d’archivio a partire dal 1142. Dal 1208 è registrata l’esistenza, accanto all’edificio, di un Ospedale. L’esame di due tele di Domenico Morone e di Teodoro Ghisi, rispettivamente conservate nel Museo di Palazzo Ducale di Mantova e nel castello boemo di Opočno, ha consentito di formulare ipotesi sull’assetto romanico della facciata, probabilmente configurato con una sovrapposizione di trifori che richiamerebbe il prototipo del Sant’Ambrogio milanese. Lo studio di un lacerto di dipinto murale trecentesco, portato alla luce solo di recente, ha consentito di correggere l’identificazione del soggetto raffigurato. Gli atti notarili hanno rivelato che il presbiterio romanico fu abbattuto nel 1524 e ricostruito voltato dall’architetto Girolamo Arcari (Commissario di Goito, cavaliere e tesoriere di Stato, nonché soprintendente delle fabbriche marchionali) insieme alla sua casa (dal 1523, oggi canonica adiacente alla chiesa). I documenti hanno rivelato inediti legami parentali e professionali fra l’Arcari e alcuni artefici dei quali, almeno in parte, si avvalse in quell’occasione: il muratore Bartolomeo Prati, il ‘marangone’ Francesco Donini (quest’ultimo attivo sotto l’Arcari nella villa gonzaghesca di Marmirolo, entrambi sotto Giulio Romano in quella del Te), il pittore Benedetto Ferrari (o ‘dalli Ferri’) già impegnato sotto l’Arcari nella residenza marmirolese ed in quella di Gonzaga. Arcari morì nel 1526 predisponendo la propria sepoltura in un’arca posta entro una cappella (andata perduta) da lui stesso eretta. La moglie fece dipingere una pala (oggi dispersa), mentre la casa fu lasciata al marchese Federico II Gonzaga che con ogni probabilità la donò alla chiesa. Una visita pastorale ha consentito finalmente di datare al 1537 la tela di grande formato (oggi all’altar maggiore), attribuita sin dal ‘700 alla mano di Ippolito Costa, mentre al 1610 e al pittore Michelangelo Avanzi va ascritto un secondo bel dipinto che fregiava la cappella fatta erigere dai fratelli ed ingegneri ducali Agostino e Gabriele sr. Bertazzolo, il cui padre Andrea era stato insediato da Federico II Gonzaga nel quartiere per poter vigilare sulle macchine idrauliche dei Mulini e della Segheria (ideata e sovrintesa a lungo dallo stesso Arcari). La tela, ancor oggi in loco, ha perduto l’incorniciatura lignea eseguita da Pietro Antonio Accorsi, di cui era nota in Mantova la sola esecuzione del soffitto della Galleria della Mostra di Palazzo Ducale. I documenti hanno consentito di chiarire i tempi della ricostruzione ‘alla moderna’ (1607-08) dell’aula e della cappelle, mentre l’osservazione delle strutture ha sovvertito l’interpretazione di chi ha condotto i restauri negli anni ’80 del ‘900. La costruzione della grande volta a botte serrata da tiranti metallici, poggiata su pilastri-contrafforte costituiti dalle scatole murarie di cappelle e ambienti secondari, riprende (anche nell’uso dell’ordine ionico) il modello della chiesa gesuitica mantovana della SS. Trinità eretta a partire dal 1587 (forse col coinvolgimento di altri tecnici appartenenti alla famiglia Bertazzolo, parrocchiani di San Gervasio) seguendo nell’impostazione generale il prototipo del Gesù romano e quello albertiano di Sant’Andrea. Da allora la chiesa fu arricchita dagli stucchi barocchi della cappella di Carlo Sebregondi (figlio dell’architetto Nicolò), dagli intagli lignei di marangoni (Sarassi e Cercuitti), dai dipinti di Giovanni Antonio Riccio, Giovanni Canti da Parma, Pietro Fabbri da Vicenza e dei mantovani Andrea Montesanti (più celebre negli anni successivi come organaro), Leandro o Giovan Battista Marconi, Luigi Carrara, oltre che dagli altari lapidei e dagli arredi lignei di cui si ignorava la provenienza ed oggi finalmente ricondotti alla perduta chiesa mantovana di Sant’Amborgio, soppressa allo scadere del XVIII secolo. Nel corso dell’800, assecondando l’elegante rigore architettonico della chiesa primo secentesca (che aveva cancellato ogni traccia visibile di quella romanica, eccezion fatta per il campanile), l’edificio fu oggetto di un processo di riassetto neoclassico evidente soprattutto nella facciata disegnata dall’architetto bergamasco Giovan Battista Vergani (su un’idea dei nobili fratelli Carlo e Luigi D’Arco), nelle decorazioni del pittore Alessandro Ferraresi (malauguratamente coperte da recenti scialbature), nelle tele di Giuseppe Razzetti e Giulio Cesare Arrivabene, negli stucchi delle ancone eseguite dallo scagliolista ticinese Girolamo Staffieri, da Giuseppe Viscardi e Giacomo (o Giocondo) Perini. In definitiva il saggio colma la lacuna storiografica che gravava su una delle più antiche e ricche chiese parrocchiali cittadine, ripercorrendone gli assetti e le vicende costruttive, restituendo i nomi dei molti artefici (noti e meno noti) che vi lavorarono soprattutto in occasione delle solenni, periodiche e per secoli ricorrenti celebrazioni del Corpus Domini.
La chiesa dei Santi Gervasio e Protasio in Mantova. Dal romanico al neoclassico e ritorno. Storia, forme, artefici (dalla A di Arcari alla V di Vergani)
TOGLIANI, CARLO
2012-01-01
Abstract
Il saggio ripercorre, alla luce di fonti inedite, la storia della chiesa dei Santi Gervasio e Protasio, una delle più antiche di Mantova. Fondata forse nel IX secolo e ricostruita poco prima della metà del XII (a quest’epoca risalirebbe il campanile), è documentata nelle carte d’archivio a partire dal 1142. Dal 1208 è registrata l’esistenza, accanto all’edificio, di un Ospedale. L’esame di due tele di Domenico Morone e di Teodoro Ghisi, rispettivamente conservate nel Museo di Palazzo Ducale di Mantova e nel castello boemo di Opočno, ha consentito di formulare ipotesi sull’assetto romanico della facciata, probabilmente configurato con una sovrapposizione di trifori che richiamerebbe il prototipo del Sant’Ambrogio milanese. Lo studio di un lacerto di dipinto murale trecentesco, portato alla luce solo di recente, ha consentito di correggere l’identificazione del soggetto raffigurato. Gli atti notarili hanno rivelato che il presbiterio romanico fu abbattuto nel 1524 e ricostruito voltato dall’architetto Girolamo Arcari (Commissario di Goito, cavaliere e tesoriere di Stato, nonché soprintendente delle fabbriche marchionali) insieme alla sua casa (dal 1523, oggi canonica adiacente alla chiesa). I documenti hanno rivelato inediti legami parentali e professionali fra l’Arcari e alcuni artefici dei quali, almeno in parte, si avvalse in quell’occasione: il muratore Bartolomeo Prati, il ‘marangone’ Francesco Donini (quest’ultimo attivo sotto l’Arcari nella villa gonzaghesca di Marmirolo, entrambi sotto Giulio Romano in quella del Te), il pittore Benedetto Ferrari (o ‘dalli Ferri’) già impegnato sotto l’Arcari nella residenza marmirolese ed in quella di Gonzaga. Arcari morì nel 1526 predisponendo la propria sepoltura in un’arca posta entro una cappella (andata perduta) da lui stesso eretta. La moglie fece dipingere una pala (oggi dispersa), mentre la casa fu lasciata al marchese Federico II Gonzaga che con ogni probabilità la donò alla chiesa. Una visita pastorale ha consentito finalmente di datare al 1537 la tela di grande formato (oggi all’altar maggiore), attribuita sin dal ‘700 alla mano di Ippolito Costa, mentre al 1610 e al pittore Michelangelo Avanzi va ascritto un secondo bel dipinto che fregiava la cappella fatta erigere dai fratelli ed ingegneri ducali Agostino e Gabriele sr. Bertazzolo, il cui padre Andrea era stato insediato da Federico II Gonzaga nel quartiere per poter vigilare sulle macchine idrauliche dei Mulini e della Segheria (ideata e sovrintesa a lungo dallo stesso Arcari). La tela, ancor oggi in loco, ha perduto l’incorniciatura lignea eseguita da Pietro Antonio Accorsi, di cui era nota in Mantova la sola esecuzione del soffitto della Galleria della Mostra di Palazzo Ducale. I documenti hanno consentito di chiarire i tempi della ricostruzione ‘alla moderna’ (1607-08) dell’aula e della cappelle, mentre l’osservazione delle strutture ha sovvertito l’interpretazione di chi ha condotto i restauri negli anni ’80 del ‘900. La costruzione della grande volta a botte serrata da tiranti metallici, poggiata su pilastri-contrafforte costituiti dalle scatole murarie di cappelle e ambienti secondari, riprende (anche nell’uso dell’ordine ionico) il modello della chiesa gesuitica mantovana della SS. Trinità eretta a partire dal 1587 (forse col coinvolgimento di altri tecnici appartenenti alla famiglia Bertazzolo, parrocchiani di San Gervasio) seguendo nell’impostazione generale il prototipo del Gesù romano e quello albertiano di Sant’Andrea. Da allora la chiesa fu arricchita dagli stucchi barocchi della cappella di Carlo Sebregondi (figlio dell’architetto Nicolò), dagli intagli lignei di marangoni (Sarassi e Cercuitti), dai dipinti di Giovanni Antonio Riccio, Giovanni Canti da Parma, Pietro Fabbri da Vicenza e dei mantovani Andrea Montesanti (più celebre negli anni successivi come organaro), Leandro o Giovan Battista Marconi, Luigi Carrara, oltre che dagli altari lapidei e dagli arredi lignei di cui si ignorava la provenienza ed oggi finalmente ricondotti alla perduta chiesa mantovana di Sant’Amborgio, soppressa allo scadere del XVIII secolo. Nel corso dell’800, assecondando l’elegante rigore architettonico della chiesa primo secentesca (che aveva cancellato ogni traccia visibile di quella romanica, eccezion fatta per il campanile), l’edificio fu oggetto di un processo di riassetto neoclassico evidente soprattutto nella facciata disegnata dall’architetto bergamasco Giovan Battista Vergani (su un’idea dei nobili fratelli Carlo e Luigi D’Arco), nelle decorazioni del pittore Alessandro Ferraresi (malauguratamente coperte da recenti scialbature), nelle tele di Giuseppe Razzetti e Giulio Cesare Arrivabene, negli stucchi delle ancone eseguite dallo scagliolista ticinese Girolamo Staffieri, da Giuseppe Viscardi e Giacomo (o Giocondo) Perini. In definitiva il saggio colma la lacuna storiografica che gravava su una delle più antiche e ricche chiese parrocchiali cittadine, ripercorrendone gli assetti e le vicende costruttive, restituendo i nomi dei molti artefici (noti e meno noti) che vi lavorarono soprattutto in occasione delle solenni, periodiche e per secoli ricorrenti celebrazioni del Corpus Domini.File | Dimensione | Formato | |
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